Judith Levine . Io non compro . Ponte alle Grazie + Jeremy Leggett . Fine corsa . Einaudi

Riuscireste a non comprare niente di superfluo per un anno intero? La giornalista americana Judith Levine e il suo compagno hanno dimostrato che è possibile. Buoni i risultati pratici: ottomila dollari risparmiati e un libro, il diario di un anno da non-consumatori intitolato “Io non compro” (Ponte alle Grazie).

Sotto forma di visione ironicamente pseudomistica, l’idea si presenta alla Levine nel bel mezzo degli acquisti natalizi, quando, intrappolata in una pozzanghera gelata e travolta da uno tsunami di pacchetti, immagina un mondo senza shopping e decide d’intraprendere un Buy Nothing Year – ovvero di moltiplicare per 365 il Buy Nothing Day, la “festa nazionale del non consumo” ideata dodici anni fa da Kalle Lasn e dalla canadese Adbuster Media Foundation.

La prima mossa è la stesura di una lista che bandisce, fra l’altro, libri, dvd, cinema, spettacoli, ristoranti e locali, abiti (su questo punto Judith cederà per una volta). Qui sorge la prima domanda: la definizione di “superfluo” è soggettiva? La cultura consumistica rende confuso il confine tra bisogno e desiderio, cosicché la maggior parte degli acquisti che non soddisfano le necessità primarie (sfamarsi e proteggersi dalle intemperie) derivano da un impulso emotivo. Il problema del sovraconsumo si lega allora all’indagine dei sentimenti che circondano l’immaginare, l’acquistare, il possedere gli oggetti. “Quello che desideriamo dagli oggetti è quello che desideriamo dalle persone e da noi stessi. E così come promette di darci accesso all’amore, il mercato ci libera dalle relazioni, ci affranca dal bisogno degli altri. Finché hai una carta di credito in tasca puoi farcela da solo”. Come Visa insegna, il capitalismo ci dà tutto, tranne ciò che non si può comprare.

Durante i suoi dodici mesi da non-consumatrice la Levine attraversa varie fasi di riflessione, ricche di considerazioni sull’American way of life, la politica, l’effettivo potere del consumatore, spazia tra sociologia, antropologia ed economia; racconta delle associazioni per chi desidera condurre una vita più semplice (“per ogni problema, reale o inventato, l’America crea un movimento di auto-aiuto”) e di come questa propensione non sfugga alle maglie del sistema, si confronta con Thoreau e il suo Walden. Non potendo, come da programma, vedere l’ultimo film o leggere il nuovo bestseller, l’autrice si ritrova con molto tempo libero (segno di povertà, a quanto pare) e rivaluta la noia (che lo shopping elude in modo effimero), scopre lo stato dei servizi pubblici e gli inganni della privatizzazione. Ritrovandosi in condizioni di debolezza (comprare vuol dire essere adulti, chi è senza soldi è un bambino, cioè un debole) sperimenta sfumature inedite nei rapporti umani, generosità insperate in un mercato che alimenta l’individualismo.

Certo l’essere americana non aiuta Judith nel suo intento: vive nel paese più sprecone del mondo, dove i cittadini – dall’11 settembre in poi – sono stati esortati dal “consumatore in capo” a mostrarsi forti e ad aprire i portafogli. Inoltre abita a New York, città dalle mille luci e tentazioni, per sei mesi all’anno (nel rurale Vermont, che ospita la coppia per altri sei mesi, il non acquisto è decisamente più facile). Fatte le debite distinzioni, tolta qualche divagazione e alcune prolissità, il racconto è piacevole e interessante, privo di moralismi e venato d’ironia, a tratti polemico, mai pretenzioso: non comprare non è una soluzione definitiva, perché “i grandi problemi richiedono grandi soluzioni politiche collettive” che i popoli devono pretendere (e in fretta) partendo da un necessario senso di responsabilità personale. Alla fine, anche se non vedono l’ora di noleggiare qualche dvd e comprare calze nuove, Judith e Paul si sentono arricchiti dall’esperienza sia come individui sia come coppia, e sono diventati consumatori più consapevoli.

Saranno perciò avvantaggiati se dovessero realizzarsi gli impegnativi scenari ipotizzati nel saggio “Fine corsa” (Einaudi): se il petrolio dovesse finire all’improvviso, sopravvivere senza fare shopping sarà inevitabile. Citato anche dalla Levine, l’eccessivo consumo di carburanti fossili (anche qui gli USA sono in prima linea) e il conseguente riscaldamento del pianeta sono oggetto di precisa disamina da parte del geologo Jeremy Leggett, ex consulente di primo piano per l’industria petrolifera, oggi direttore scientifico di Greenpeace in Gran Bretagna (e membro del Comitato consultivo sulle energie rinnovabili del governo britannico).

Il punto della situazione viene, in questo caso, da un esperto che ha operato a lungo all’interno delle maggiori compagnie petrolifere e ne conosce perfettamente logiche e ambiguità. Anche se il titolo inglese del libro, “Half Gone”, è lievemente più ottimistico della sua traduzione, la morale non cambia: meglio iniziare subito ad utilizzare le energie alternative (e rinnovabili). Con ironia, competenza e chiarezza, Leggett racconta la storia della Perla Azzurra, il Pianeta Terra, dalla sua nascita ad oggi, di quanto la razza umana lo abbia sfruttato senza rispetto e di quanto stia ignorando i segnali d’allarme provenienti da più direzioni.

“Abbiamo permesso che il petrolio diventasse di vitale importanza per ogni cosa che facciamo: il novanta per cento di tutti i trasporti, terrestri, aerei o marittimi, utilizzano il petrolio; il novantacinque per cento dei prodotti che troviamo nei negozi richiede l’utilizzo del petrolio” così come il novantacinque per cento dei prodotti alimentari. L’assuefazione globale al petrolio è resa ancor più sconcertante da un dato di fatto: le riserve sono limitate. E l’abbiamo sempre saputo. Agli attuali livelli di consumo, il serbatoio mondiale entrerà in riserva molto prima della fine del secolo (forse già nel prossimo decennio).

Diviso in tre parti, il saggio tenta di rispondere, o almeno di esaminare, tre aspetti legati al problema: spiegare il motivo per cui si prevede la fine delle scorte entro tempi brevi; analizzare il perché non c’è stata – e non c’è ancora – la volontà di trovare e/o sviluppare rapidamente delle soluzioni al problema; tentare di capire i tempi dell’effettivo esaurimento del petrolio. Il momento critico viene spesso indicato come “picco di produzione del petrolio” o “picco di Hubbert”, e corrisponde al raggiungimento della quantità massima di petrolio estraibile: da quel momento inizierà il declino progressivo e generalizzato della produttività dei giacimenti, con il rischio di una recessione economica paragonabile alla grande depressione degli anni Trenta.

Lontano dal catastrofismo ma fortemente ancorato a una realtà da non prendere alla leggera, Jeremy Leggett spiega perché non è facile né probabile la scoperta di nuovi, grandi giacimenti, parla della difficoltà di capire l’effettivo ammontare delle riserve esistenti (le compagnie petrolifere non sono chiare su questo punto), espone le teorie di ottimisti e pessimisti. Racconta la storia del petrolio, della sua scoperta, delle sue implicazioni politiche ed economiche in modo esauriente, con un linguaggio scorrevole, chiaro, anche umoristico. Va oltre, sottolineando che il petrolio dev’essere in ogni modo accantonato a causa del riscaldamento globale, esaminando le varie energie alternative esistenti, analizzando il modo in cui potremmo utilizzarle. “Fine corsa” è uno scritto documentato, equilibrato, avvincente, che si appella al buonsenso degli uomini: abbiamo gli strumenti per salvare la nostra Perla, ma le iniziative isolate non bastano. La disintossicazione globale dal petrolio deve iniziare adesso. A buon intenditor… e guai a voi se, per scacciare eventuali angosce, alla fine del libro uscirete a fare shopping.

Articolo pubblicato sulla Gazzetta di Parma

Leggi la scheda libro sul sito Ponte alle Grazie

Leggi la scheda libro sul sito Einaudi

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