Primi passi nel mondo delle recensioni

Le mie primissime recensioni per la Gazzetta di Parma, raccolte in un unico post perché datate anche se i libri sono ancora quasi tutti di gradevole lettura.

Mark Barrowcliffe, Ragazza n. 44
Marco Vichi, Il commissario Bordelli
Arturo Pérez-Reverte, Capitano Alatriste
Hanif Kureishi, Il Buddha delle periferie
Frédéric Beigbeder, lire 26.900
Goffredo Buccini, Orapronò
Ellen Fein e Sherrie Schneider, Le Regole per il matrimonio

Mark Barrowcliffe, Ragazza n. 44 (Piemme)

Una scarsa predisposizione alla felicità: Harry Chesshyre, cognome ammiccante al gatto di Wonderland, si presenta fin dall’inizio come problematico esponente di quella generazione intorno ai trenta tanto amata dagli scrittori britannici, i cui dolori ritornano in questo Ragazza n° 44 (Piemme) di Mark Barrowcliffe, già tradotto in sette lingue. Affiancato da “scapoli poco appetibili” quanto lui, il protagonista è uomo di medie virtù, piazzato tra il fascinoso Farley, tombeur de femmes, e il nevrotico Gerrard, poco portato alla conquista. Tre uomini nella stessa barca insomma, per tacer del cane (genuinamente simpatico); sarà la loro amicizia, efficacemente descritta, l’unica ad uscire indenne dalla vicenda. Un’aura d’insoddisfazione circonda i nostri quando, insieme al dramma, nel Paese delle Meraviglie entra Alice, donna perfetta portatrice di scompiglio, rivalità e speranze. Chi la conquisterà è proprio Harry, voce narrante dall’umorismo sornione che con piglio sarcastico e compiaciuto ci accompagna fra pregiudizi, contraddizioni e riflessioni senza possibilità di replica, scusandosi qua e là con una strizzatina d’occhio. Barrowcliffe guida l’immaginazione del lettore per mezzo di immagini valide e non troppo scontate, in una sorta di sceneggiatura costellata di similitudini ed esempi visivi tratti da cinema, televisione e teatro, dove ogni scena si fa veicolo di un humor esterno al racconto e che solo raramente raggiunge i livelli d’ironia di Elen Fielding (Bridget Jones) o di Nick Hornby (Alta Fedeltà). Il tono si fa più serio e le battute si diradano quando Harry, in serrata competizione con l’amico Gerrard, conquista la seducente Alice; saranno i colpi di scena finali ad alleggerire l’atmosfera, insinuando il sospetto di una morale in agguato: l’attaccamento ai vecchi schemi, la superficialità e la paura faranno perdere al protagonista una partita importante. Un romanzo brillante dal retrogusto amaro, da meditare o consumare velocemente, a piacere.

Marco Vichi, Il commissario Bordelli (Guanda)

Terzo romanzo, terza ambientazione fiorentina: dopo L’inquilino e Donne Donne Marco Vichi torna a noi con Il commissario Bordelli (Guanda). Siamo nell’estate del 1963, la città è immersa in un caldo afoso; Bordelli, la cui bonarietà ricorda certi poliziotti di quartiere da telefilm americano, si ritrova alle prese con un omicidio da risolvere. “Detesto le retate, mi ricordano i rastrellamenti. Ma se devo farle, di certo non metterò in galera chi ha fame”: veterano deluso dagli esiti della guerra e tormentato dai ricordi, ancora in attesa della donna giusta, Bordelli è una sorta di malinconico cavaliere solitario in una Firenze irreale, fatta di case che sanno di vecchio e di polvere. Intorno a lui si muove un teatrino di varia umanità composto da personaggi stereotipati: Inzipone il capo tronfio, Piras il giovane poliziotto zelante, Diotivede il medico occhialuto; Dante lo scienziato squinternato con capello scompigliato, l’amica Rosa candida ex prostituta, Botta il ladro cuoco; e poi le vicine di casa della vittima, la signora ficcanaso e pazzoide, la zitella che vive con la mamma suonata eccetera, mentre il Maggiolino scassato e Mugnai l’assistente imbranato fanno tanto Dylan Dog. Ha anche un alter ego Bordelli, il represso e maniaco cugino Rodrigo, che avrà la fortuna d’innamorasi alla follia mentre il commissario non potrà far altro che sognare la bella Evelina incontrata durante l’indagine. Due i tipi di delinquenti: quelli simpatici, gente che ruba o truffa non per cattiveria ma per sopravvivenza (in qualche modo vengono alla mente I soliti ignoti), e gli assassini, ricchi ed avidi di maggior ricchezza. La vicenda poliziesca, di un giallo sbiadito, trova parziale riscatto nel sapiente dosaggio delle rivelazioni che porteranno alla soluzione, perché il colpevole è chiaro fin da subito e il meccanismo facilmente intuibile. Ne Il commissario Bordelli il delitto diventa una storia fra le altre, una sorta di fil rouge continuamente perso e ritrovato fra un racconto di guerra, una considerazione esistenziale, l’apparizione di un nuovo personaggio. Del resto lo stesso Vichi dichiara di non essere un vero giallista pur citando fra gli autori amati Lucarelli e Wallace, in compagnia di Camilleri, dei russi Lermontov, Dostoevskij, Cechov, Bulgakov, degli americani Fante e Salinger. Poco giallo, un po’ di noir: scene dal passato con effetto flou, fumo di sigaretta, caldo e notti insonni. Più che nella suspense, la validità del romanzo è nell’evidente piacere di raccontare – specialmente le storie di guerra, in gran parte vissute dal padre dell’autore – che diventa piacere di leggere e di lasciarsi catturare dalla fluidità di una scrittura senza spigoli.

Arturo Pérez-Reverte, Capitano Alatriste (Tropea e Salani)

Sia reso omaggio a Diego Alatriste y Tenorio, meglio conosciuto come Capitano Alatriste, giunto a noi dalla vicina Spagna per rinverdire i fasti del romanzo di cappa e spada (Arturo Pérez-Reverte, Capitano Alatriste, Tropea e Salani Editori). Siamo nel 1623, a Madrid, e qui il Capitano Alatriste – dopo aver combattuto nelle Fiandre – tira a campare come spadaccino a pagamento. Non è forse l’uomo più onesto e neanche il più caritatevole della terra, ma è un uomo valoroso: così ce lo descrive il tredicenne Iñigo, suo domestico, paggio, figlio adottivo e inseparabile compagno di avventure in un’epoca “in cui la vita bisognava guadagnarsela cogliendo al volo ogni occasione, a un angolo di strada, tra il luccichio di due spade”. La vicenda entra nel vivo quando Alatriste accetta un nuovo incarico apparentemente semplice, un agguato di ordinaria amministrazione che ovviamente si trasforma nell’inizio di un’intricata faccenda. Tra scontri ed incontri inframmezzati da poesie apocrife, le pagine scorrono veloci verso un gran finale che non esiste: Capitano Alatriste è infatti il capostipite di una fortunatissima serie che conta altri tre titoli (Limpieza de sangre, El sol de Breda, El oro del Rey, ai quali l’autore si propone di aggiungere altri due romanzi) non ancora tradotti in italiano. Si resta in sospeso, con la consapevolezza di aver letto solo l’introduzione a un mondo tutto da scoprire; anche perché, a ben vedere, poco accade al nostro eroe. Ma è difficile accorgersene. Perché Capitano Alatriste cattura con meccanismi narrativi degni del miglior Ken Follett, accompagnando il lettore nel cuore del “Siglo de Oro” con i suoi intrighi e le sue contraddizioni: non è pregio da poco, e fa perdonare all’autore le carenze a livello di stile e d’invenzione prosastica. Classe 1951, Arturo Pérez-Reverte è stato reporter di guerra per ventun anni, inaugurando la carriera di scrittore nel 1986 con il romanzo El húsar. Il successo internazionale arriva nel 1990 con La tavola fiamminga (miglior romanzo straniero dell’anno per il New York Times, pubblicato in Italia nel 1999) e prosegue con una moltitudine di riconoscimenti: La pelle del tamburo vince il Premio per la letteratura europea Jean Monnet 1997, mentre nel 1998 Pérez-Reverte riceve la più alta onoreficenza del governo francese diventando cavaliere delle Arti e delle Lettere. In italiano sono stati pubblicati anche Il maestro di scherma, Territorio comanche, La carta sferica, vincitore a Parigi del Prix Méditerranée étranger, oltre al Club Dumas da cui Roman Polanski ha tratto il film La nona porta. A questo si aggiungano altri premi grandi e piccoli, qualche trasposizione cinematografica, ed ecco un autore che negli Stati Uniti è stato definito “il Dumas spagnolo”, diventato in patria un caso letterario e un punto di riferimento nel campo del romanzo storico per adulti e ragazzi, con un’enorme diffusione in ambito scolastico. Come emerge da più di un’intervista, il segreto di Arturo Pérez-Reverte è molto “semplice” e sta nell’essere lettore ancor prima che scrittore, nel porsi davanti al libro con le stesse aspettative di chi lo leggerà. Divoratore instancabile di storie, cita come personali pietre miliari I tre Moschettieri, La Certosa di Parma e La montagna incantata, con particolare riconoscenza verso il suo primo amore, Dumas, e senza nulla togliere a Tolstoj, Stevenson, Salgari, London, Melville, Conrad, Allan Poe, Wells, Pynchon, i polizieschi Ellery Queen, Dashiel Hammett, Agatha Christie, i romanzieri spagnoli del XIX secolo e tanti altri: tutti autori preferiti a pari merito. Pérez-Reverte riscrive i libri che ama, cercando di ricostruire la biblioteca immaginaria e meravigliosa accumulata nella sua memoria, giocando a connettere fra loro mille storie. Dietro il Capitano Alatriste c’è tutta la letteratura spagnola del Secolo d’Oro, un distillato di Cervantes, Lope, Calderón, Quevedo, Pellicer. Emblematico com’è del suo tempo, di cui riassume il meglio e il peggio, Quevedo entra addirittura nella schiera degli amici del Capitano per il suo essere molto barocco, molto spagnolo. Ma non c’è solo letteratura nella serie di Alatriste: da bravo reporter, l’autore vuole raccontare la Spagna com’era, lavora con la storia unendola all’immaginazione; si documenta sulla mappa di Madrid di don Pedro Texeira datata 1656, consulta materiale iconografico e registri d’epoca creando un territorio dove Mateo Alemán, il capitano Contreras e il Duca di Estrada si mischiano a personaggi di pura fantasia, comunque rappresentativi. Come Alatriste stesso, simbolo del dramma di chi andava in terre lontane a lottare per la religione, per un’idea o per la monarchia e che tornando in patria si ritrovava al punto di partenza: i preti restavano fanatici, i ministri corrotti, i re incapaci, gli aristocratici analfabeti, in un paese con poche possibilità di futuro dove la disillusione separava la Spagna ufficiale da quella concreta. I personaggi di Arturo Pérez-Reverte si caratterizzano per l’assenza di fede, religiosa, nelle grandi idee o nelle grandi parole; così il Capitano Alatriste, uomo senza fede eppure con una dignità che lo giustifica. Persino il cattivo di turno, l’italiano Malatesta, non resta senza qualche riscatto: nel suo odio per i rivali traspare una sorta di rispetto, la consapevolezza di essere della stessa stoffa. Tipica del genere è invece la presenza femminile, affidata alle figure della generosa taverniera ex-prostituta e della perfida nobile dagli occhi di ghiaccio: importanti per la trama pur restando in secondo piano. Affascinante opera di restyling del picaresco, Capitano Alatriste è seriamente documentato e avvincente, ricco di riferimenti e richiami da approfondire se incuriositi. Nell’attesa delle prossime puntate e volendo cimentarsi con la lingua spagnola, merita una visita il sito ufficiale (http://capitanalatriste.inicia.es), vera miniera d’informazioni con interviste e notizie sull’autore, brevi saggi, dettagli storico-geografici sulla Madrid del XVII secolo, immagini dei protagonisti della saga, i primi capitoli dei quattro romanzi di Alatriste. E come anticamera, un gioco a quiz interattivo pensato per le scuole.

Hanif Kureishi, Il Budda delle periferie (Bompiani)

Periferia di Londra, tardi anni ’70: Karim Amir, padre pakistano e madre inglese, è un irrequieto diciassettenne oppresso da una situazione familiare tetra e noiosa, pronto a tutto pur di movimentarsi la vita. A permettergli l’agognata fuga sarà il padre Haroon: maestro nella mistica di consumo, forse Budda forse imbroglione, comunque motore del cambiamento della propria e di altre vite. Sconvolgendo una famiglia per crearne un’altra insieme all’esuberante Eva, Haroon porterà il figlio Karim nella grande città, dove troverà esperienze, avventure, e una brillante carriera di attore. Il Budda delle periferie, romanzo di Hanif Kureishi pubblicato a giugno da Bompiani, è una storia di crescita, della ricerca di un’identità, del bisogno di creare una personalità definita “da un misto di continenti e razze, di qua e là, di appartenere e non appartenere”: Karim è inglese nonostante il colore della pelle. Ma c’è di più. Kureishi non si accontenta di porre il suo personaggio all’incrocio tra due vecchie culture: lo inserisce nel periodo in cui il Governo Laburista sta per cedere il posto a un decennio di thatcherismo, nell’epoca di transizione tra l’idealismo hippie e l’iconoclastia punk. A salvare Karim dalla disperazione sono due qualità: il senso dell’umorismo – il romanzo è disseminato di situazioni comiche, talvolta assurde o grottesche – e l’istintività, che lo porta a cavarsela con poco quando gli altri personaggi si dibattono nella confusione e nell’ambivalenza. Le uniche emozioni che lasciano in lui qualche traccia sono quelle relative alla sua famiglia, dove la classe media appare come il prodotto di una nazione di apatici ed egoisti. Proprio per questo la decisione del padre di andarsene con Eva causa in Karim solamente un senso di sottile dissonanza: se non altro, Eva è viva. Per il resto, Karim mantiene il proprio atteggiamento quasi contemplativo con gli innumerevoli personaggi tra i quali fa la spola. Ci sono i parenti indiani, Anwar e la Principessa Jeeta, proprietari di un negozio di alimentari, la loro figlia Jamila, amica del cuore di Karim e sua saltuaria partner sessuale, e Changez, sposo a lei anacronisticamente imposto. I parenti inglesi, zio Ted e zia Jean, “normali alcolisti infelici” che vivono nell’elegante quartiere di Chiselhurst. C’è il figlio di Eva, Charlie: molto bello, molto egoista, molto desiderabile, molto abile nello sfruttare queste doti diventando una rockstar. Ci sono i ricchi intellettuali, i colleghi attori, i politicamente impegnati. Ognuno di loro ha qualcosa da insegnare, ed è attraverso di loro che alla fine del romanzo Karim – poco più che ventenne – arriverà a capire meglio se stesso, ottenendo fama e fortuna: la scena finale lo descrive seduto come un Budda al centro della città che ama, tra le persone che ama, in contemplazione di un futuro in cui vivrà in modo più appagante, felice di godere della considerazione altrui (e di possedere un portafogli pieno). Secondo un’ottica meno mistica, un futuro senza preoccupazioni economiche. Insieme a lui gioiscono la mamma, rinata e con un nuovo amore inglese, e la coppia Haroon-Eva, che annunciano il loro matrimonio.
Il Budda delle periferie riflette le aspirazioni e le contraddizioni di un’epoca esplorando al contempo innumerevoli temi: quelli, cari all’autore, della cultura, identità, libertà sessuale a Londra; il divario periferia-città; la famiglia; i rapporti padre-figlio, maschio-femmina, indiano-inglese; le tensioni della società multiculturale. Molti i dati autobiografici che Kureishi inserisce nella storia (illuminante in questo senso il breve saggio Da dove vengono le storie? Bompiani, 1999): le origini, la famiglia, l’ex compagno di scuola David Bowie (in Panta n. 11, 1993, Bowie commenta il personaggio di Charlie Hero: “sento di assomigliare molto a Charlie possiede la stessa determinazione che avevo io alla sua età”), i punti di vista di Hanif ragazzo di periferia. Come in Salman Rushdie, il “quasi inglese” rinvigorisce il linguaggio; sempre, lo stile è quello che Kureishi stesso descrive: “A me interessa soprattutto la piacevolezza della scrittura, il piacere che procura al lettore un linguaggio semplice, vivo, chiaro. Semplicità e chiarezza sono difficili da raggiungere ma sono qualità irrinunciabili”.

Frédéric Beigbeder, Lire 26.900 (Feltrinelli)

Non si può battere il sistema: lo sa bene Frédéric Beigbeder, pubblicitario parigino “pentito” passato ad altre attività (pare sia stato licenziato) a causa di un libro dove spara a zero sul settore: al contempo facendosi, guarda caso, una gran pubblicità. A cominciare dal titolo, Lire 26.900 (Feltrinelli): vale a dire, questo è il mio prezzo, compratene tutti. Diversa la valuta in Francia, dove 99 francs, pubblicato nel 2000, ha venduto oltre 400.000 copie diventando un best seller ed un caso nazionale. La storia di Octave, strapagato copywriter presso l’agenzia internazionale Rosserys & Witchcraft (amichevolmente detta Rosse, ovvero carogna – e witchcraft sta per stregoneria), inizia sotto il segno dell’angoscia: il nostro è piuttosto antipatico, un ricco frustrato alla deriva intento a sniffare dal mattino alla sera che vede nel licenziamento l’unico modo per ritrovare la propria libertà. Ci prova, ma dopo una serie di provocazioni ottiene soltanto di farsi spedire in clinica per una cura disintossicante: diventa patetico e più cupo di prima. Una gita aziendale in Africa, un’inattesa promozione, Miami: qui la svolta che porterà Octave al trionfo (ottenuto grazie a uno spot soft-core non finalizzato alla vendita e mai mostrato al cliente) e alla rovina insieme. La follia è la fuga ultima del protagonista, in una girandola visionaria dove le persone invece di morire si trasferiscono in una pubblicità, moderna versione del Paradiso. Fra i temi ricorrenti, quello della coppia (Octave rifiuta la fidanzata incinta in favore del sesso a pagamento, senza finzioni né responsabilità), e del doppio (secondo l’autore, forma di fuga che permette di evitare le colpe, ma anche simbolo dell’uniformarsi dei modi di vita e della clonazione).
Sei capitoli, sei pronomi personali, sei soggetti narranti: la tattica cerca di attirare il lettore in un gioco di immedesimazioni, il filo del racconto interrotto da pensieri esistenziali, pesanti denunce, attacchi al mondo della pubblicità in generale e alla R&W in particolare. Tra un capitolo e l’altro, in un crescendo di demenzialità, ci sono anche gli spot pubblicitari. Il perché di questa struttura frammentata ce lo spiega Beigbeder stesso nell’intervista rilasciata a Bernardo Cinquetti (Palazzo Sanvitale n. 6/2001): “avevo voglia di parlare della pubblicità, ma anche della morte, della paternità, dell’amore, della coppia della cocaina all’inizio pensavo di dover scrivere tre libri diversi ma a poco a poco ho trovato che questa era la storia di un uomo che vuole farsi licenziare”. Il risultato è un patchwork composito, fatto di citazioni, cinismo, superficialità. La pubblicità è paragonata alla propaganda nazista ma l’indignazione contro il sistema sembra sincera solo quando, cifre alla mano, si trasforma in giornalismo. I momenti più genuini sono quelli in cui l’autore esprime le gioie e – soprattutto – i dolori del pubblicitario: “Mi piace inventare frasi non esistono altri mestieri in cui sia possibile arrovellarsi tre settimane su un avverbio” oppure “il nostro è un lavoro troppo frustrante Già siamo tutti degli artisti mancati, in più ci obbligano a soffocare il nostro amor proprio riempiendoci i cassetti di idee bocciate” e ancora “Nel loro animo si rivolgono alla ‘rincoglionita sotto i cinquant’anni’. Voi tentate di proporre qualcosa di diverso, che rispetti un po’ la gente E vi viene impedito.” Octave è un cocainomane puttaniere e vigliacco; viene da chiedersi se anche Frédéric lo sia ancora una volta la risposta viene dall’intervista di Cinquetti: “Octave è me in peggio, esagerando tutti i difetti: più drogato, più potente, più cattivo, più pericoloso, ma anche più inquieto, più ribelle, più coraggioso, anche i pregi sono esagerati. Diciamo che è me stesso in versione più interessante”. Nato nel 1965, Frédéric Beigbeder ha lavorato per dieci anni come creativo in tre importanti agenzie (CLM-BBDO, TBWA, Young & Rubicam – la cui sigla Y&R ricorda non poco la famigerata R&W del libro) pubblicando parallelamente tre romanzi, una raccolta di novelle e un libro sulla Barbie (sì, la bambola); critico letterario e cronista, appare quotidianamente sugli schermi televisivi in trasmissioni di punta, serate d’intrattenimento, talk show, e in patria sembra essersi attirato un rispetto quasi unanime nonostante le attività da night-clubber. Descritto come un tipo mondano, un parigino, il genere di scrittore che la gente conosce senza averlo mai letto, Beigbeder è, al di là di tutto, un personaggio che sicuramente sa come rivolgersi a target molto diversi fra loro (deformazione professionale?). Maudit auto proclamato, si dichiara ammiratore di scrittori come Houellebecq, Modiano, Kundera, dove sono più che evidenti i punti di contatto con i minimalisti, Jay McInerney e Bret Easton Ellis in particolare. In Francia Lire 26.900, considerato cinico o divertente secondo il critico, è stato definito da Christophe Lambert dell’agenzia pubblicitaria CLM/BBDO come “l’atto di redenzione di un dandy che ha sentito il bisogno di espiare il proprio passato per farsi accettare nell’ambiente degli intellettuali parigini”, mentre ben altre sono le accuse lanciate da Marc Laimé del Canard Enchaîné in un suo lungo e dettagliato articolo (www.uzine.net/article191.htm).
Forse il maggior pregio di Lire 26.900 è nel suo essere una voce politicamente scorretta, un punto di vista differente rispetto ai manuali, alle autobiografie dorate, ai saggi di saggi consigli dei guru dell’advertising. Ma non illudiamoci sulla sua originalità: che sia un caso oppure no, dagli U.S.A. è già arrivato Slab Rat, dove Ted Heller si lancia al massacro di una rivista di moda. Per dirla con Octave, “la rivolta fa parte del gioco”.

Goffredo Buccini, Orapronò (Frassinelli)

Orapronò di Goffredo Buccini (Frassinelli) non è un libro di cui parlare, è un libro da leggere. Qualcosa si può dire, con il rischio di togliere sorprese e fornire orientamento: un gran peccato per una storia che sfida al continuo districarsi in una selva di personaggi, situazioni, segreti, in un racconto pieno d’immaginazione, ironia, ritmo. L’area vesuviana e l’eterno confronto fra quelli della Santachianca e quelli di Savanna fanno da sfondo a una giostra da cui Buccini fa emergere, a turno, tre protagonisti: don Ausilio Malinverno, “vecchio forte, merdillo svelto a difendersi col rasoio, portuale amico degli americani, truffatore di camorristi e carabinieri, giudice di un letamaio senza giustizia, padre e nonno e marito e violentatore e assassino e mandante, Masaniello degli spacciamorte”; Ugo Scarfé, ingegnere bibliomane appassionato di storia, consigliere, amico nonché muto testimone di don Ausilio; dalla parte dei buoni, il maggiore dell’Anticrimine Vitalizio Ronsisvalle accompagnato dal gatto curativo Bixio. L’intreccio porta verso una direzione precisa ma nel percorso altro si scopre, insieme alle trame di potere emergono trame personali e dolorose, storie di vittime innocenti, di vendette covate per anni dietro innocue facciate. In un microcosmo regolato da leggi proprie dove il bene e il male si confondono e il soprannaturale diventa quotidiano al punto da permettere ai fanti di scherzare con i santi, ad avere la meglio alla fine è uno strano destino che fa tornare qualcosa al proprio posto e ne mette qualcun’altra in quello che gli compete.
Il giornalista Goffredo Buccini, attualmente inviato del Corriere della Sera a New York, non è nuovo ad argomenti di mafia e dintorni: oltre a numerosi articoli ha pubblicato – in collaborazione con Peter Gomez – O mia bedda Madonnina, storie di Cosa Nostra a Milano, mentre il suo romanzo d’esordio, Canone a tre voci, è ambientato in un’innominata metropoli meridionale dove il degrado antico si mischia a quello contemporaneo, in cui il potere è lottizzato ma dominato dalla Santachianca e dove s’incontra per la prima volta il personaggio del capitano Ronsisvalle ripreso in questo Orapronò.
Tra scene alla De Filippo e possibili fatti di cronaca, agilità linguistiche e gergo napoletano, finta normalità e ordinaria follia, Orapronò mette alla prova l’attenzione, invita alla curiosità, lascia il segno insomma. E, pregio da non sottovalutare, il senso del titolo si capisce solo a poche pagine dalla fine.

Ellen Fein e Sherrie Schneider, Le Regole per il matrimonio (Rizzoli)

Se i rapporti tra i due sessi vi sembrano diventati troppo difficili, niente paura: ci sono le Regole. Reduci dal successo di Le Regole e Le Regole II, manuali per trovare e conquistare l’uomo giusto che suscitarono accese reazioni per l’eclatante antifemminismo, Ellen Fein e Sherrie Schneider ci rifanno con Le Regole per il matrimonio (Rizzoli), ricette sicure per un matrimonio appagante. O, più esattamente, le due autrici – esperta in psicologia sociale la prima, giornalista la seconda – ci insegnano come far funzionare l’azienda matrimonio. Tanto per iniziare, le signore mogli dovrebbero guardare in faccia la realtà: “Sfortunatamente, in un matrimonio la maggior parte del lavoro emotivo, quando non tutto, spetta a voi” e capire che “per essere felicemente sposata, una donna deve a volte trattare il marito come se fosse un cliente da soddisfare”. Avete obiezioni? Niente da fare, Ellen e Sherrie inflessibili vi spiegano il perché delle loro motivazioni, raramente concedendo il beneficio del dubbio. Nelle 43 “mosse vincenti” si alternano considerazioni sensate e offese all’intelligenza di maschi e femmine, in un pot-pourri fatto di buonsenso della nonna, dissimulazione, sfruttamento delle amiche, rinuncia, finzione, indifferenza. Si tocca la, si fa per dire, genialità nel consiglio “ditegli di sì e poi fate come vi pare”, mentre i passi più sottoscrivibili riguardano gli inviti a smussare gli spigoli, al tener fuori dal rapporto i propri problemi personali, ad essere flessibili. A tratti, Le Regole per il matrimonio stupisce con qualche uscita alla John Gray, ma è tutta una finta: mentre Gray (serio autore di Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere e Marte e Venere si corteggiano) invita alla comprensione, al rispetto delle reciproche differenze e al dialogo, la terza puntata de Le Regole è priva di qualsiasi approfondimento: qui il segreto della felicità coniugale è nell’ottenere la reazione desiderata compiendo, ci piaccia o no, l’azione più appropriata. E se nonostante gli sforzi il matrimonio non funziona? Divorziate con dignità e poi uscite al più presto con altri uomini. A garanzia di genuinità, tutte le Regole sono state testate personalmente dalle autrici, specialmente da Ellen Fein: che, alla vigilia della pubblicazione di questo libro, ha annunciato di aver chiesto il divorzio dal marito dopo sedici anni di matrimonio. Messo in imbarazzo dalla notizia, l’editore Aol Time Warner ha dovuto ritirare le copie già diffuse in anteprima per ridistribuirle dopo opportuna revisione. Comunque sia, le italiane non sembrano molto d’accordo sulle indicazioni delle due americane: come emerge da un forum Internet del settimanale Donna Moderna, ognuna preferisce provare la propria personale ricetta.

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